Messa a fuoco

messa a fuoco

La messa a fuoco è di sicuro una delle operazioni più importanti che bisogna eseguire durante la fase di scatto, perché con essa controlliamo la nitidezza di un’immagine o di una porzione della stessa.

Prima di entrare nel vivo dell’argomento, dobbiamo riprendere alcuni concetti, come il piano focale, la lunghezza focale e la profondità di campo.

Quando parliamo di piano focale intendiamo il piano in cui i singoli raggi luminosi, che arrivano da un punto all’infinito, si incontrano e si concentrano.

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L’immagine viene messa a fuoco proprio sul piano focale, in corrispondenza del quale è posto anche il sensore (o la pellicola).

La distanza tra il centro ottico dell’obiettivo ed il piano focale, invece, sta ad indicare la lunghezza focale (o distanza focale, o semplicemente focale).  Si tratta di un parametro misurato in millimetri che viene usato per differenziare gli obiettivi (es. 50mm, 18-55mm, 35mm). Ogni ottica è caratterizzata da una focale: quest’ultima determina l’angolo di campo, ovvero l’angolo di visuale che possiamo inquadrare. In poche parole, la lunghezza focale dice quanto un obiettivo può “avvicinare” o “allontanare” ciò che inquadriamo.

Come avviene quindi la messa a fuoco? Nella pratica, la maf si ottiene avvicinando il gruppo lenti dell’obiettivo dal sensore o allontanandolo da esso: in questo modo si cerca la giusta distanza che consentirà la nitidezza.

Ogni obiettivo, infatti, è in grado di mettere a fuoco “solo” ad una precisa distanza. Si parla, appunto, di “distanza minima di messa a fuoco” abbreviata in MFD (Minimum Focus Distance).
Per comprendere questo concetto, in genere si prende come termine di paragone l’occhio umano: provate ad avvicinare un dito ai vostri occhi e vedrete come, da un certo punto in poi, esso non è più a fuoco, proprio perché abbiamo superato la distanza minima di messa a fuoco e ci accorgeremo che, in effetti, quest’ultima è molto bassa nella nostra vista (in condizioni normali, la distanza è tra i 15 e i 20 cm).

Facciamo l’esempio del classico 18-55: per quest’ottica la distanza minima è di circa 30 cm. Cosa comporta questa caratteristica? Se ci avviciniamo troppo al soggetto, stando sotto la distanza indicata, non riusciremo a metterlo a fuoco. Si tratta quindi di un limite di cui tener conto.

Per conoscere la MFD dei nostri obiettivi basta controllare il manuale con le specifiche tecniche contenuto nella confezione oppure i dati riportati sulla parte anteriore dell’obiettivo stesso. La distanza è espressa in metri (m) e/o piedi (ft). Un valore tipo 0,35 m sta ad indicare che la distanza minima di messa a fuoco consente di avvicinarsi al soggetto fino a 35 cm.

Un piccolo cenno ad un approfondimento futuro…
Abbiamo detto che, al di sotto della distanza minima di messa a fuoco, non possiamo ottenere fotografie nitide, correttamente a fuoco. Tuttavia, è possibile intervenire su questo parametro e modificarlo attraverso particolari accessori come i tubi di prolunga e i soffietti che vengono posti tra corpo macchina e obiettivo.
Tali accessori sono usati, ad esempio, in Macrofotografia allo scopo di ingrandire i soggetti. Grazie ad essi si ottiene un rapporto di ingrandimento maggiore e, nello stesso tempo, diminuisce la distanza minima di messa a fuoco. Il rapporto di ingrandimento è maggiore perché aumenta la distanza tra obiettivo e piano focale. Tale distanza è detta “tiraggio”.
Quindi, in poche parole, più la lente è in grado di allontanarsi dal sensore, più il soggetto può stare vicino alla fotocamera e, grazie a questi particolari accessori, possiamo manipolare tale distanza (tiraggio), riuscendo a focheggiare senza problemi.

Tornando al nostro discorso, possiamo aggiungere che, “oltre un certo limite”, non conta più la distanza del soggetto dalla fotocamera. Ed è qui che entra in gioco il concetto di “infinito”.  Vale a dire che, se portiamo la ghiera dell’obiettivo a fine corsa, in altre parole, se impostiamo la messa a fuoco su infinito, la distanza del soggetto non influisce più sulla nitidezza: tutto ciò che è molto lontano sarà nitido. Il parametro infinito si trova sulla ghiera dell’obiettivo sotto il simbolo ∞ (otto rovesciato).

Il valore infinito serve per mettere a fuoco soggetti molto distanti, non serve per avere tutto a fuoco. Per avere tutto a fuoco, devo usare l’iperfocale, concetto che affronteremo più avanti.

Piccola nota: su alcuni obiettivi, mettendo a fuoco su infinito, si ottengono risultati migliori se si porta leggermente indietro l’anello di maf rispetto al simbolo ∞.

Perché impostando su infinito non ho a fuoco sia il primo piano che lo sfondo? Perché con esso perdiamo un bel po’ di profondità di campo. Bisogna tener conto che la porzione di PDC è maggiore dopo il punto di messa a fuoco e minore davanti (NON si estende sempre per 1/3 prima del punto di messa a fuoco e 2/3 dopo, come affermano in tanti, vedi articolo sulla profondità di campo). Per tale motivo, se mettiamo a fuoco su infinito perdiamo la porzione maggiore di PDC che si trova dietro il punto di MAF.

Abbiamo così ricordato la nozione di profondità di campo. Abbiamo detto che ogni obiettivo mette a fuoco ad una distanza precisa, ma allora perché accade che nella foto troviamo comunque soggetti nitidi anche se essi si trovano più vicini o più lontani rispetto al soggetto a fuoco?

Proprio perché esiste una zona di nitidezza “apparente” che si estende prima e dopo il punto di messa a fuoco e rappresenta la zona in cui gli elementi della scena appariranno nitidi nella foto finale.
Si dice “apparente” perché in realtà ogni obiettivo può mettere a fuoco solo su un piano ben preciso, tutto il resto sarà sfuocato. Tuttavia in quell’intervallo prima e dopo la linea di messa a fuoco la perdita di nitidezza è quasi impercettibile per l’occhio umano, anche se in realtà c’è comunque, pur essendo appunto molto ridotta.

In teoria, una zona perfettamente nitida viene riprodotta nella foto come un insieme di piccoli punti, mentre gli oggetti che si trovano prima e dopo il piano di messa a fuoco saranno riprodotti come cerchi. È per questo che si parla di cerchio di confusione.

Nell’intervallo della profondità di campo, il cerchio di confusione è così piccolo che l’occhio dell’osservatore lo percepisce come un punto. Fino a che i cerchi vengono percepiti come puntiformi, quel piano sarà interpretato come “ancora” a fuoco. Riprenderemo anche questo concetto.

Ora, nella pratica, più il diaframma è aperto (f/2, f/2.8, f/4…) più i cerchi di confusione sono grandi: questo significa che la messa a fuoco è più difficile e un piccolo errore produce immagini poco nitide, sfuocate: vengono messi a fuoco solo gli oggetti che stanno alla distanza “corretta, esatta” e si avrà una profondità di campo molto piccola.
Se si usano, al contrario, aperture piccole (f/16, f/22…), i cerchi di confusione sono molto piccoli e quindi è più semplice assicurarsi immagini a fuoco (aumenta notevolmente la profondità di campo).

Traducendo questo concetto nella lingua degli obiettivi, un’ottica con una focale corta avrà una profondità di campo maggiore, un’ottica con una focale lunga avrà una profondità di campo minore.

Aggiungiamo solo un’altra nozione rispetto all’argomento “nitidezza”, ovvero quella di diffrazione.
Abbiamo appena parlato di apertura. Quando ci riferiamo al diaframma, dobbiamo tener conto di un fenomeno particolare che può cambiare il risultato della nostra foto. Questo fenomeno prende il nome di diffrazione e si verifica con aperture molto piccole (es. f/22, f/32…). In genere utilizziamo diaframmi così chiusi per avere una maggiore profondità di campo o aumentare il tempo di scatto. In queste situazioni, la risoluzione dell’obiettivo è compromessa dalla diffrazione, di conseguenza anche la nitidezza della foto.

Soffermiamoci solo un secondo sugli effetti della diffrazione visibili nel risultato finale: quando c’è diffrazione, notiamo un “ammorbidimento” dell’immagine, la risoluzione diminuisce, perdiamo dettagli, compare una patina che ricopre le zone della nostra foto.

Situazioni tipiche
Ritratti: solitamente si sceglie di mettere a fuoco gli occhi. Quindi, diaframma abbastanza aperto, tipo f/2.8, focale da 50mm o superiore.
Ritratti ambientali (ritratto con paesaggio): quando si sceglie di dare importanza anche allo sfondo, scegliere un’apertura tipo f/8 o f/11, focale piccola per avere più elementi nell’inquadratura. Altrimenti, usare una focale più lunga e un’apertura intermedia come F4 o F5,6, per isolare il soggetto principale ed avere nitidezza su quest’ultimo ed uno sfondo che va sfumando.
Paesaggio o architettura: focale corta, diaframma abbastanza chiuso, tipo f/11, per avere il maggior numero di componenti a fuoco, maf su un punto intermedio dell’inquadratura, generalmente il punto di focheggiatura ricade nel primo terzo a partire dal basso, treppiede perché i tempi saranno più lunghi in funzione del diaframma ridotto che fa entrare meno luce.
Macro: distanza molto ravvicinata fra obiettivo e soggetto, bassa profondità di campo, diaframmi come f/8 o f/11, obiettivo dedicato, quindi obiettivo macro, maf manuale, treppiede, curare l’illuminazione della scena.

In linea generale, la messa a fuoco deve ricadere su quel punto preciso della foto che dovrà richiamare l’attenzione dell’osservatore.

Come funziona la messa a fuoco?
Alla luce di tutto questo, possiamo comprendere come funziona “nella pratica” la messa a fuoco.
Gli obiettivi sono provvisti di un meccanismo che permette alla lente di spostarsi avanti e indietro fino a raggiungere la distanza corretta per la messa a fuoco.

Ruotando  un’apposita ghiera che troviamo sul barilotto dell’obiettivo, oppure servendoci dell’autofocus, possiamo consentire lo spostamento della lente. Quindi, la messa a fuoco può essere eseguita in due modi: manualmente o in automatismo. Se l’obiettivo è provvisto di ghiera dedicata, otteniamo la maf semplicemente ruotando quest’ultima fino a quando il soggetto non sarà nitido; se l’obiettivo è dotato di autofocus (AF), oppure il corpo macchina è motorizzato, un motorino interno gestirà lo spostamento della lente, mentre noi teniamo premuto a metà corsa il pulsante di scatto. Analizziamo entrambe le modalità.

SINTESI
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